Scienza e femminismo.

Sara Sesti


Agnese Seranis, Margherita Hack, Sara Sesti. Palazzo Ducale, Genova 2002


Nel femminismo italiano, il dibattito sui fondamenti della scienza inizia a metà degli anni ’80. La svolta decisiva avviene subito dopo il disastro di Cernobyl del 26 aprile 1986, il più grave incidente mai verificatosi in una centrale nucleare. Il cambio di rotta ha luogo perché quel disastro viene riconosciuto non più come un incidente isolato, come nel precedente caso di Seveso, ma come la manifestazione di uno squilibrio da affrontare nelle sue origini profonde. La prontezza e la competenza con cui si esprime la critica femminista non sono improvvisate: sono il risultato delle esperienze e delle pratiche del movimento delle donne che, partito nel decennio precedente dai temi del personale, della sessualità e dell’inconscio, è arrivato anche a confrontarsi con gli oggetti tradizionali del sapere, come ha fatto il gruppo “Sessualità e simbolico”, nato nel 1977 a Milano e confluito in parte nell’esperienza dei corsi 150 ore. Fondamentale è stato anche il lavoro del Movimento per la salute e per la medicina delle donne, portato avanti nei consultori e  nei gruppi di self help.

Fino ad allora, la critica di sinistra
è bloccata sulla distinzione tra “uso e abuso della scienza”. Si ritiene cioè che la ricerca sia di per sé buona e neutrale, mentre invece possono diventare cattive le sue applicazioni. Gli scienziati non sono ritenuti colpevoli degli esiti distruttivi, perché non  sono loro a decidere l’uso delle scoperte scientifiche, che sono scelte dei politici, dei padroni o dei  militari. La critica delle donne apporta un vera e propria rivoluzione, perché mette in discussione proprio la presunta oggettività e neutralità della ricerca,  rivendicando la presenza dell’elemento individuale, soggettivo e sessuato, anche nel processo di produzione di conoscenza.


Evelyn Fox Keller


Dal 1986 al 1991 vengono pubblicati in Italia i libri più importanti sull’argomento. Sono dapprima traduzioni di articoli di ricercatrici anglo-americane come Alice al microscopio del 1985 e Donne, tecnologia e scienza del 1986, testi delle ricercatrici definite “fondative” come Sul genere e la scienza; In sintonia con l’organismo di  Evelyn Fox-Keller del 1987 e La morte della natura di Carolyn Merchant dell’ 1988 e la prima ricerca storica: L’Eredità di Ipazia di Margaret Alic del 1989. Sono testi importanti perchè ricostruiscono la presenza delle donne, svelano le metafore usate nel linguaggio scientifico e smascherano gli stereotipi secolari sul rapporto donne e scienza.

Più tardi vengono scritti e pubblicati testi italiani come Donne senza Rinascimento di Enrica Chiaromonte, Giovanna Frezza e Silvia Tozzi, 1991; Immagini di cristallo di Luisella Erlicher e Barbara Mapelli, 1991. Conversazioni con Evelyn Fox-Keller del 1991 e La nube e il limite del 1990 di Elisabetta Donini, una puntuale e approfondita analisi critica del formarsi della scienza e delle sue categorie.

Nascono in quegli anni in varie città i luoghi di ricerca, dove le donne interrogano le discipline: a Bologna nel 1986 il “Coordinamento Nazionale di Donne e scienza” di cui Agnese faceva parte, a Milano l’Università delle donne, la rivista Lapis. Percorso della riflessione femminile, diretta da  Lea Melandri e la comunità Iazia con riferimento la Libreria delle Donne; nel 1987, a Roma nello stesso anno il Centro culturale Virginia Woolf.

Agnese Seranis, fisica, femminista e scrittrice è tra le protagoniste di questo movimento di critica alla scienza. Io incontro il suo pensiero nel 1990, attraverso gli scritti pubblicati sulla rivista Lapis, alla quale entrambe collaboravamo. La sua analisi mi colpisce profondamente perchè mette al centro della sua critica il corpo, la sessualità e il mondo interiore.


Su Lapis n. 9 conclude l’articolo “Un percorso da tracciare” scrivendo: “La scienza dell’uomo e la sua modalità di fare scienza mancano del corpo. Non vi è alcun ponte tra il mondo delle idee e il mondo della carne. Studiando i loro modelli e teorie, percepisco il mio corpo come svuotarsi dei suoi desideri, dei suoi bisogni, della sua individualità. Non esisto più… L’uomo scienziato ha fatto astrazione dal suo corpo: l’essere umano nella sua individualità è un accadimento irrilevante. Io vorrei, che fosse tracciato per noi donne e da noi, un percorso che porti ad una conoscenza che non esiga necessariamente mutilazioni o negazioni. Che crei un’altro punto di vista, con il quale l’uomo si confronti.”

Nello stesso articolo, Agnese analizza il testo “Sul genere e la scienza” di Evelyn Fox-Keller. Indica i punti per cui lo ritiene molto importante, ma avanza anche una critica: “In tutto il saggio della Keller sul costituirsi di differenze strutturali dell’io femminile e maschile, si percepisce l’ansia di minimizzare l’influenza del sesso a favore delle pressioni culturali e sociali. Così, modificato lo sfondo sociale, noi donne saremmo in grado di diventare soggetti “autonomi e separati”, capaci anche di fare scienza ( al maschile? ). Il punto di vista della Keller mi sembra troppo sbrigativo e mi sembra portare alla cancellazione della “differenza sessuale”. La stessa critica la muoverà anche a “La nube e il limite” di Elisabetta Donini.

Nel n.13/14 di Lapis, Agnese si chiede se sia possibile per le donne fare scienza tenendo insieme il corpo con la mente: restare fedeli alla propria soggettività e al proprio sesso e al tempo stesso mantenere un “legame d’amore” con il proprio oggetto di studio.
La domanda ricorre in tutti i suoi libri: " Posso io essere sia oggetto di conoscenza che pensiero conoscente? Posso io rifiutarmi di diventare strumento luogo della vita, per essere indagatore pensiero? Desideravo comprendere, desideravo penetrare con la mia intelligenza l’insondabile, avessi dovuto anche lacerare il mio ventre. Dovevo trovare una nuova fisica.” A me sembra questa l’originalità di Agnese: la sua esigenza forte di amalgamare quello che fino ad allora sembrava inconciliabile. Una posizione eccentrica anche all’interno del Coordinamento Donne e Scienza.

Allora, trovavo i suoi testi sconvolgenti perché, al contrario di Agnese, io mi ero sempre affidata alle certezze della scienza, che mi sembrava un porto sicuro, proprio perché smaterializzata, libera dal peso della carne. Mi ero laureata in Matematica, la insegnavo e allora era l’unico punto fermo della mia vita piena di variabili. La amavo proprio perché mi dava la sensazione di operare in un universo perfetto e mi sentivo orgogliosa di appartenere ai pochi che ne conoscono le regole.

I ragionamenti di Agnese, tuttavia, non mi erano estranei. Davano voce a certi turbamenti che avevo provato nella mia prima esperienza di immersione totale nel  femminismo. Mi riferisco a un’avventura, iniziata 10 anni prima, nel 1978 quando fui coinvolta come insegnante, in un  biennio superiore per le casalinghe di Affori, che avevano preso il diploma della scuola media frequentando le 150 ore nei corsi di Lea Melandri. Io arrivavo da una esperienza politica nel movimento studentesco. L’autocoscienza mi aveva solo sfiorata e fu un bel salto di qualità.

 


Una classe del corso 150 ore di Affori



Nonostante praticassi un insegnamento della matematica che ritenevo molto avanzato e critico, l'atteggiamento delle corsiste era di rifiuto, di perplessità, di accettazione passiva e solo in pochissime di interesse. Arrivai al massimo della confusione e dell' esasperazione durante una lezione sulle “unità di misura” per il calcolo di perimetri e aree, dove si poneva il problema dell'astrazione. Anche se avevano capito perfettamente il concetto, le corsiste inventavano strani contro-esempi sulla possibilità di misurare la stanza prendendosi per mano, allungandosi o stringendosi a piacere, oppure ne mettevano in dubbio la certezza per calcolare il loro giro petto e il loro giro vita.

Io ero davvero infastidita da quella onnipotenza: rifiutavano la matematica perché le escludeva e affermavano regole nuove dove il loro corpo diveniva addirittura l’ unità di misura dello spazio… Nello stesso tempo, non potevo nascondere a me stessa che provavo una certa ammirazione per la loro mancanza di soggezione per le regole e per il metodo scientifico. Pian piano realizzai che qualcosa delle loro obiezioni mi riguardava da vicino, che eravamo le due facce di un’unica medaglia. Cominciai allora a ripensare al mio percorso di studi e a mettermi in gioco. Diedero gli esami all’Itis di Sesto San Giovanni, ottenendo ottimi voti.

Ritrovare 10 anni dopo, negli scritti di Agnese, l’idea che una scienza differente non possa che partire dalla riunificazione di parti sé; la possibilità di  “pensare e parlare” di scienza, senza cancellare le esperienze mute del corpo delle donne né la cultura depositata nella tradizione orale femminile, è stata per me una grande conferma.

Negli anni successivi ad Affori, ho continuato a fare ricerca sul rapporto donne e scienza attraverso lo studio delle biografie di scienziate, una passione condivisa anche da Agnese. Siamo riuscite entrambe a concretizzare i nostri studi con due lavori diversi che presentammo nell' Ottobre del 1998 all’  Università delle Donne in occasione del convegno “Donne e Scienza”. Io portavo una ricerca collettiva, la Mostra fotografica: “Scienziate d’Occidente. Due secoli di storia, che ho curato per l’Università Bocconi con Liliana Moro e altre ricercatrici. Agnese presentava il suo libro “Il filo di un discorso“. Da allora è nata tra noi una amicizia vera e una collaborazione alla pari e abbiamo realizzato, insieme a Liliana Moro, diverse iniziative e pubblicazioni.

Il mio contributo alla ricerca sul rapporto donne e scienza si è concretizzato nel libro "Scienziate nel tempo. 75 biografie" scritto con Liliana Moro fino all'edizione del 2016, un saggio che ho continuato ad aggiornare da sola fino all'edizione 2020 contenente più di 100 storie di grandi protagoniste della ricerca.

A volte mi chiedo se sia ancora necessario un libro come "Scienziate nel tempo. Più do 100 biografie" per ribadire che la diffusa opinione  che “le donne non sono portate alla scienza” è solo uno stereotipo difficile da cancellare. La risposta è assolutamente affermativa visto il compiaciuto stupore con cui ai primi di febbraio 2020 è stato accolto l’isolamento del coronavirus da parte di tre ricercatrici dell’istituto Spallanzani di Roma. Finalmente neppure un uomo nell’équipe ad attribuirsi, come spesso è successo in passato, il merito del risultato! Certo qualcosa sta cambiando, ma resta il fatto che a tutt’oggi solo ventuno donne in tutto hanno ottenuto un Nobel in campo scientifico, mentre sono molte di più quelle a cui per qualche intuibile motivo questo meritato riconoscimento è stato negato.

La ricerca iniziata al l’Università Bocconi e continuata alla Libera Università delle Donne, accende un faro sul fondamentale e spesso misconosciuto ruolo svolto dalle donne che si sono occupate di scienza dall’antichità ai nostri giorni. 

Le cinquanta biografie documentate nella prima pubblicazione del 1999 col titolo "Donne di Scienza" sono ora più di cento, una più interessante dell’altra, comprendendo le protagoniste dell’informatica, delle nuove tecnologie e le protagoniste d’importanti progetti collettivi: dalle pazienti compilatrici dei cataloghi stellari - tra cui vi erano anche alcune suore della Specola Vaticana - alle sottopagate programmatrici dell’Eniac (il primo calcolatore elettronico), dalle fisiche che hanno contribuito al Progetto Manhattan alle matematiche afroamericane senza le quali probabilmente il primo uomo non avrebbe calpestato il suolo lunare.

Leggendo le dense pagine del libro ci si rende subito conto che le scienziate selezionate hanno tutte alcune caratteristiche in comune. Almeno fino al secolo scorso quando scuole superiori e università cominciarono ad aprire loro le porte, oltre alle doti intellettuali fuori dall’ordinario, dovevano possedere una grande tenacia e sete di sapere per riuscire a evadere dal ruolo che la società prevedeva inesorabilmente per le donne che non volevano essere emarginate: occuparsi della famiglia o chiudersi in convento.

Ma queste capacità non erano sufficienti, dovevano anche avere al loro fianco una figura maschile  – padre, fratello, marito, amico di famiglia   – che ne apprezzava le capacità e schiudeva ad esse le porte della cultura scientifica. Tra gli esempi più noti  vi sono Ipazia, matematica istruita dal padre, Trotula, medica e collega del marito, Elena Cornaro Piscopia, prima donna laureata al mondo nel 1678 con l’incoraggiamento del padre, Sophie Brahe stretta collaboratrice del fratello Tycho, la fisica Laura Bassi, prima donna a ottenere una cattedra universitaria, introdotta agli studi dal padre e dal medico di famiglia, la matematica Gaetana Agnesi, bambina prodigio ammirata innanzitutto dal padre, Marie Lavoisier preziosa collaboratrice del marito Antoine, Ada Byron Lovelace, prima programmatrice incoraggiata in questo caso dall’amico  Charles Babbage e, la più nota di tutte Marie Sklodowska Curie, i cui grandi meriti furono per primi apprezzati dal marito e poi dall’Accademia svedese che le conferì ben due premi Nobel: per la fisica e per la chimica.

La situazione è andata migliorando per le donne nate nel ventesimo secolo, ma ancora per molte riconoscimenti e carriera hanno rappresentato una sfida che ha richiesto almeno il doppio della determinazione necessaria ai colleghi maschi. E alle volte questa determinazione non è bastata come è successo alla forse troppo bella attrice cinematografica Hedy Lamarr a cui è dedicata la copertina del libro. Ideatrice durante la seconda guerra mondiale di una tecnica basata sul salto di frequenza per proteggere i siluri dalle intercettazioni nemiche, non riuscì a farla applicare dalla marina statunitense, anche se l’idea  era talmente valida che, a molti anni di distanza, viene tuttora utilizzata nelle comunicazioni wireless.

In effetti, uno degli scopi del libro è proprio quello di rafforzare coraggio e autostima nelle aspiranti scienziate grazie agli esempi delle ammirevoli colleghe che le hanno precedute. Come lei stessa racconta, per esempio, è stato proprio l’aver letto la storia di Marie Curie a convincere la direttrice del CERN Fabiola Gianotti ad affrontare gli studi scientifici che l’hanno portata ad occupare, prima donna nella storia di questa istituzione, l’attuale prestigiosa carica.

Un libro che sarebbe estremamente consigliabile come lettura complementare nelle scuole superiori per contribuire a una scelta ben informata del corso universitario a cui ci si vuole iscrivere e che aiuta le ragazze a non aver paura delle discipline STEM.

11 maggio 2020